Racconto di viaggi
Ho conosciuto la Somalia grazie al mio lavoro. Credo che sia giusto riconoscere al mio passato lavorativo il merito di avermi portato in luoghi che difficilmente avrei visto altrimenti. La Somalia è uno di quelli.
Si dice che chi frequenta un Paese per ragioni professionali non ne colga l’essenza, non ne apprezzi la consistenza, non riesca ad attivare, con la gente, quella minima pratica comunicativa che gli sarebbe utile per valutare. Credo sia vero. Ma credo anche che, tra i molti privilegi di cui ho goduto in queste mie esperienze, ci sia stato anche quello di vivere molto intensamente il rapporto con la gente e con il Paese, e questo mi ha concesso molto. Non è stato un mio merito, ma delle persone che mi hanno ricevuto e accompagnato, che mi hanno guidato e che mi hanno aiutato a risolvere mille problemi. Adesso apprezzo e ringrazio. Specialmente per quanto ho vissuto in Somalia.
La Somalia é una terra bellissima, dura e selvaggia sulla quale soffia, costante, un vento che porta il sapore del mare. Il cielo è intenso e spesso piccole nuvole tonde galleggiano a migliaia sul suo blu inarrivabile. L’aria é satura di profumi primitivi e la libertà ha una dimensione quasi fisica. Ma la Somalia é anche la terra dove la nostra cattiveria, la nostra miopia di improvvisate sentinelle del mondo ha sperimentato i più nefasti tentativi di dominio. L’ho vissuta a periodi alterni, ma anche relativamente lunghi, tra il 1986 e il 1992. In realtà, però, ho frequentato solo la capitale, Merca, Gezira e la strada litoranea che porta al confine con il Kenya. E’ inevitabile quindi che ne parli al passato. Ma forse, della Somalia, chiunque ne può parlare solo al passato.
Mogadiscio, nel 1986 era una città vastissima e decadente, ma anche estremamente affascinante e incredibilmente colorata. L’impronta urbanistica data dagli italiani era evidente e molti palazzi si conservavano ancora decentemente, anche se le pratiche manutentive al patrimonio immobiliare erano, in generale, ridottissime. Tutta l’area di fronte al porto, attorno alla Garesa, il palazzo che fu sede del Vali fino all’epoca coloniale, era zona di mercato, e questo si svolgeva tutti i giorni, con l’eccezione del venerdì, fino alle prime ore del pomeriggio. La strada principale che portava in quell’area era sempre congestionata e i pochi semafori in funzione non riuscivano certo a regolare un traffico impressionante. Musica e odori di ogni genere riempivano l’aria. Ricordo che la cosa che mi impressionò di più fu la moltitudine di bambini scatenati in giro per le strade: saltavano, correvano e giocavano a calcio in ogni angolo del centro. Le nostre vecchie Fiat 124, dipinte di verde e rosso (oltre ad altre decorazioni, a discrezione del loro conducente) erano i taxi della città: scricchiolavano e strombazzavano senza controllo, non avevano aria condizionata, tassametro e altri accessori a prima vista importanti. Però non si fermavano quasi mai e il prezzo della corsa era efficacemente regolato da misteriose leggi, per cui non c’erano sorprese di alcun genere. Le strade laterali alle arterie principali erano quasi tutte sterrate: raccoglievano anche i rifiuti, a cielo aperto, senza alcun tipo di contenitore. I rifiuti marcivano al sole e lì, evidentemente, si polverizzavano o si fossilizzavano: non ho mai visto una raccolta rifiuti in funzione! Il quartiere più povero si trovava sulla strada a scorrimento veloce che è tangente alla città, a Ovest. Si trova al IV chilometro. IV chilometro è anche il nome del quartiere. Era un insieme di baracche in lamiera e legno, completamente sprovvisto di sistemi idrici e fognari, dove la vita era durissima, in particolare nei mesi di clima estremo. So che è stato quasi completamente distrutto durante la battaglia dell’ottobre 1993. Spero abbiano costruito qualcosa di più umano.
L’ultima volta che ho visto Mogadiscio era l’estate del 1992. Si respirava già un’aria pesante. In centro incominciavano a circolare auto tedesche di grossa cilindrata, miracoloso contributo derivato dai finanziamenti alla Cooperazione. Gli alberghi consigliabili però erano ancora solamente due: l’Hotel Juba e l’Hotel Croce del Sud. Entrambi non meritavano il numero di stelle che esibivano sulla targa all’ingresso, ma almeno la Croce del Sud era gestito da italiani e, pur nelle modestissime condizioni, si viveva un po’ meglio. L’edificio aveva uno stupendo cortile in ghiaia circondato da un portico che regalava grande conforto nella ore calde. Non so bene come, ma nel cortile vivevano anche tre grandi alberi abbastanza in salute da permettersi il lusso di fare ombra. Sotto, i tavoli del ristorante con tovaglie che erano state candide. Oramai avevano irrimediabilmente perso l’originale eleganza a causa dei mille rattoppi che sembravano un vero e proprio ricamo. Gli spaghetti aglio, olio e peperoncino erano squisiti.
Oggi, l’albergo, così come l’intero isolato, non esiste più. Solo rovine.
L’assenza di servizi efficienti è un’altra delle cause: ma questa è una diretta conseguenza dei punti uno e due. Ma la vera malattia della Somalia di quegli anni, e forse la malattia di sempre, era la totale mancanza di un vero interesse della classe dominante a far funzionare le cose come funzionano, più o meno bene, nell’ambito delle cosiddette Società Civili. La Somalia non è mai stata una Nazione, almeno come la intendiamo noi oggi. Una terra compresa all’interno di deliranti confini tracciati dalla matita del gerarca, una gabbia virtuale dentro la quale decine di tribù di pastori più o meno nomadi si sono, da sempre, contesi i pascoli. Darod, Issa, Migiurtini, Warsangeli. Tribù, niente più che tribù! Il passato remoto che il fascismo ha voluto attribuire agli abitanti della terra di Punkt, non è mai esistito. Questa gente disperata, alla continua ricerca di un po’ di pascolo, ha sempre avuto la tendenza a violare la terra altrui. E a uccidere, se questo era necessario. Ha sempre vissuto di violenza, perché la natura stessa è violenta e promette violenza. A quel tempo, la cooperazione internazionale, tra mille problemi, si sforzava di mantenere aperta la porta della solidarietà, ma gli aiuti in cibo e medicinali deperivano rapidamente nei container deliberatamente “dimenticati” sui piazzali di scarico degli aeroporti. Alla povera gente in fuga dall’Ogaden in guerra abbiamo visto recapitare pezzi di ricambio per auto che non erano mai circolate in quelle piste, macchine per scrivere, duecento televisori portatili in bianco e nero, e millecinquecento rasoi elettrici a batteria. Tutto il resto, gli aiuti veri, il latte in polvere, le confezioni di acqua, la verdura e la frutta in scatola, lo zucchero, la farina e gli antibiotici arricchivano l’offerta del mercato nero, gestito direttamente dal Dittatore e dalla sua famiglia. In queste condizioni é fin troppo facile prendere atto che la colonizzazione del Corno d’Africa é solo convenzionalmente terminata nel 1960: in realtà continua e continuerà chissà fino a quando, nella perversa logica dell’innarrestabile e immensa propensione alla corruzione manifesta nelle strategie dei nuovi padroni.
I vecchi indigeni, per vantare le qualità del capretto cucinato alla maniera somala, amano dire che la migliore aragosta é buona quasi come il peggior capretto. Riempito di riso colorato in rosso verde e bianco e messo per circa due ore nel forno a legna, oltre a essere veramente squisito, è anche bellissimo da vedere; aperto sul ventre, con il suo tesoro di riso tricolore che lo riempie e lo guarnisce, è una vera sorpresa. L’ultima volta, ho lasciato Mogadiscio con il cuore in subbuglio. Ero cosciente che nessuno di noi avrebbe mai potuto fare alcunchè per cambiare le cose. Incominciavo a capire, piano piano, che cosa fosse quello strano senso di dolore muto, di tristezza e di rancore non detto che quelle migliaia di occhi lasciavano leggere anche al più superficiale degli osservatori e al più distratto uomo in fuga come mi sentivo in quel preciso momento. In quella città, che fu meravigliosa, si stava coltivando odio e desiderio di rivincita non solo per un passato criminale e già condannato dalla recente storia, ma anche, e forse soprattutto, per il presente, fatto di promesse improbabili, di aiuti inutili, di investimenti dannosi, per imporre i quali eravamo disposti a corrompere, a minacciare, a uccidere. E ora dobbiamo fare i conti con la conseguente aggressività, con la sete di vendetta di chi non può fare altro per fare sentire la propria voce rauca, che si esaurisce o meglio, si trasforma, ogni anno che passa, in un urlo sempre più debole, che non intimorisce e non modifica in alcun modo l’ottuso egoismo delle Potenze Superiori. Il ricordo della Somalia é vivissimo: la sabbia, le pietre del deserto, gli animali nei fiumi, le figure sottili e solitarie, le donne bellissime. La Somalia ha vissuto l’ultimo dramma, l’ epilogo della sanguinosa rivolta per destabilizzare la dittatura. Poi ci sarà un’altra rivolta per sostituire il potere acquisito dalla rivolta: non ci sarà mai fine, non ci sarà mai pace. Solo morte, carestia e distruzione. E noi, dico noi del “mondo giusto”, incapaci anzi inetti di fronte al progressivo annullamento di un popolo, a guardare, soffiando sul fuoco. I nostri silos vuoti ad Afgoi, il nostro incredibile mattatoio a Mogadiscio, lo stabilimento della Liquichimica, la fabbrica di polistirolo; tutto inutile, tutto vano, fermo, dannoso. Utile solo per i corrotti che hanno imposto la loro diabolica logica di profitto. Terribile. Terribile e vergognoso.